A voler essere onesto, Pierluigi Battista, che sul Corriere della sera di ieri metteva in guardia dalla insidiosa seduzione dell’«estetica della rivolta» avrebbe dovuto metterla così: poiché noi, la stampa e gli altri media, siamo il cane di Pavlov, quando ci fanno vedere la polpetta, sbaviamo. Non ci vuole chissà quale astuzia mediatica dei movimenti per conoscere e attivare questo arcinoto meccanismo. Nessuno scontro, nessuna notizia.

La polpetta servita sabato scorso era di colore blu, che qualche novità bisogna pur introdurla. Ma anche dall’insipienza dei commentatori si può sempre trarre qualche insegnamento. L’editorialista del Corriere contrapponeva i contenuti della mobilitazione, «cascami iperideologici che riaffiorano da epoche geologiche sepolte» all’efficace talento spettacolare dei manifestanti in blu. Quello sì, attraente e pericoloso. Cosa ci sia poi di antidiluviano nella rabbia di più di una generazione di precari esclusi da qualsivoglia ammortizzatore sociale, per non parlare degli 80 euro che Renzi intende mettere nelle tasche dei lavoratori salariati, (benvenuti, certamente, per chi li riceverà), attendiamo ancora di farcelo spiegare.

Antidiluviana ed iperideologica è semmai l’idea che le buste paga ritoccate rilanceranno i consumi, quindi la produzione e, infine, l’occupazione. Quando invece andranno, in larga misura, a pagare i debiti e il rimanente non accrescerà di una unità gli occupati, come gli imprenditori si sono premurati di far sapere per tempo. Non siamo insomma tanto lontani dalla prova elettorale e dal pacco di pasta del comandante Lauro. Cosa davvero modernissima.

Che questa rabbia, ignorata e sbeffeggiata, decida di esprimersi anche ruvidamente, che alla spropositata violenza economica esercitata in nome della rendita si contrappongano forme più o meno intense di ribellione non dovrebbe sorprendere. Ma qui converrà fare i conti con le insufficienze e i limiti della protesta sociale.

Nel ripercorrere le vicende degli scontri di piazza (soprattutto romani) degli ultimi anni è difficile sottrarsi a una insistente sensazione di ritualità. Come di fronte a un canovaccio che si ripete, beninteso con le diverse varianti che ogni canovaccio degno di questo nome consente e prevede. L’idea dell’«assedio» (termine alquanto improprio per designare azioni perlopiù fulminee) dei palazzi del potere, dei luoghi della decisione, rischia di farci dimenticare quanto gli «assedianti» siano in realtà assediati e quanto rompere l’accerchiamento dovrebbe essere la principale preoccupazione. Così come il termine «sollevazione», nella vastità che lo contraddistingue, poco si attaglia a una breve e circoscritta incursione. Si può perfino capire, tuttavia, che la ricorrente messa in scena del tumulto, comunque lo si voglia chiamare, serva a ribadire e sottolineare che di fronte all’arroganza del potere e alla durezza dei colpi subiti l’eventualità di una rivolta violenta resta sempre presente, per quanto aleatorie ne siano le possibilità di successo.

Insomma, lo dico senza intenti polemici, si va a messa nell’attesa della resurrezione, si fa la comunione con il corpo della moltitudine in vista della salvezza finale. E, dir messa, lo sappiamo, è una ben nota forma della politica.

Ma quando il simbolico si riproduce sempre uguale a se stesso, simulando una materialità effettiva che non riesce in realtà ad attingere, il circolo vizioso è garantito, la coazione a ripetere insuperabile. È un problema di efficacia che non si riesce a risolvere. E il prezzo comunque non è irrilevante.

La reazione repressiva è sempre più smisurata rispetto alla modesta entità degli eventi di piazza. Lo è stata anche sabato scorso a Roma, dove il corteo, e anche tutti i singoli che vi partecipavano, sono stati costretti (assediati) per la prima volta dentro una ferrea gabbia senza vie di uscita. Che l’incursione in via Veneto non ha in nessun modo scalfito. C’è dunque da interrogarsi seriamente su come queste modalità di conflitto, aldilà dai colori che indossano, possano essere superate, come il quadro di una «legalità» che prevede il sacrificio di molti e il privilegio di pochi possa essere forzato con qualche speranza di tenuta e di durata.

Altrimenti resteremo prigionieri di una retorica lievemente schizzata di sangue.