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4 Giugno 2015 | Racconti d'autore

Le ragazze di San Tomaso

Un testo di Laura Artioli tratto dal libro di Pierluigi Tedeschi “L’arvisèria. Atlante delle lettere dal carcere di Serena Pergetti” (fotografie di Erica Spadaccini, Bosco Mesola, ABao AQu, 2015) – prima puntata.

A cura di Vittorio Ferorelli. Lettura di Alessia Del Bianco

Storica e antropologa, Laura Artioli introduce i testi e le immagini delle lettere scritte alla famiglia da una giovane antifascista reggiana durante la sua prigionia tra il febbraio e il luglio del 1944, lettere ora raccolte da Pierluigi Tedeschi.

Se non apparisse così sorridente, Serena, alle sue lettere dal carcere ci si accosterebbe con qualche riserbo. Perché la riduzione su carta di una vita che aveva cambiato orizzonte all’improvviso era destinata solo ai suoi affetti più cari, i voi tanti con i quali non sembrava necessario spendere nemmeno troppe parole, eppure tenuti in conto di riguardo al punto che ci si scusava del mal scritto e della resa da galera.
E invece le sue fotografie ci autorizzano e ci incoraggiano. Nelle pose di tre quarti che andavano di moda all’epoca, Serena ha il bel viso aperto delle donne emiliane, gli occhi vivaci, l’aria avvertita e curiosa di chi è molto presente a sè stessa, un sorriso cortese e dolce che rivela e infonde sicurezza.
Appena ventuno anni, ma è proprio una Pergetti: come Eviva e Stella, le sue sorelle maggiori, ha studiato fino alla quinta elementare, perché nella sua famiglia di socialisti prampoliniani istruirsi significa emanciparsi. In più lei, la piccola di casa, da bracciante agricola che era ha compiuto un salto di condizione che nei primi anni Quaranta faceva la differenza: dopo avere frequentato un corso preparatorio, era stata assunta come operaia al Calzificio “Bloch”, nel quartiere industriale di Reggio Emilia. Un lavoro che aveva dovuto abbandonare a vent’anni per il suo antifascismo manifesto, ma intanto, insieme al fratello maggiore Avanti – entrambi vivevano ancora con i genitori –, aveva imparato a collaudare e riparare armi e cospirava attivamente contro il regime.
Nelle lettere che scrive a casa fra marzo e giugno 1944 Serena non cede alla sfiducia riguardo alla propria sorte, come se la ragionevolezza dovesse prevalere per forza, perché – dice – nulla ho fatto all’arovescio. La verità ufficiale, da esibire ai controlli severi della censura, coincideva perfettamente con la sua verità interiore.
La più giovane dei Pergetti, come tutti quelli di casa sua, era certa di trovarsi dalla parte del giusto.

Ho un debito di gratitudine verso Serena. E verso Pierluigi Tedeschi che mi ha messo a parte delle sue scoperte.
Nel corso della mia lunga ricerca su Lucia Sarzi – l’attrice girovaga di origini mantovane che aveva giocato un ruolo di prim’ordine negli anni successivi all’entrata in guerra dell’Italia, ricucendo quella trama di persone e di luoghi che avrebbero reso possibile la guerriglia armata nella pianura emiliana dopo l’8 settembre – ho guadagnato uno dopo l’altro faticosi palmi di terreno insicuro in una pressoché assoluta mancanza di documenti.
I Sarzi dei primi anni Quaranta non hanno depositato tracce di sé se non nel ricordo di chi li ha incontrati e visti recitare.
Le voci e i racconti che li riguardano sconfinano di continuo nella leggenda. Uno storico che si basasse esclusivamente sulle carte d’archivio potrebbe affermare che non sono mai passati per le contrade della bassa reggiana. Che la loro epopea è frutto di un miraggio collettivo.
E invece ecco che nelle lettere ritrovate di Serena compare per quattro volte, fra i saluti di gruppo che le sue compagne di detenzione inviano ai Pergetti, il nome di Lucia nero su bianco. Anzi, bruno sul color seppia dei foglietti a righe che escono dal carcere dopo il vaglio della censura.
A dimostrare che è tutto vero.
Che entrambe – l’attrice ventiquattrenne e la giornaliera non ancora ventiduenne – erano finite ai Servi, in gariffa, durante la retata che, due mesi dopo la fucilazione dei fratelli Cervi, rischiava di smantellare le basi dell’organizzazione clandestina che a loro aveva fatto capo.

Lucia, catturata probabilmente a Casalbellotto nel cremonese, dove i suoi avevano cercato di nascondersi, è forse una delle prime a cadere nella rete.
Serena era stata prelevata da casa alla fine di febbraio, due giorni dopo l’arresto di tre dei suoi fratelli. A ragion veduta, dal punto di vista della Brigata nera: la residenza dei Pergetti, sulla strada fra Villa Sesso e Villa Argine, era da tempo una delle case di latitanza più frequentate della zona e aveva ospitato in diverse occasioni, durante quell’inverno, i giovani rimasti senza un riferimento dopo la dispersione della banda Cervi. Proprio uno di loro – quel cretino che ci à denunciati, scrive Serena ai suoi, quasi si fosse trattato di una burla – un ucraino finito nelle mani dei fascisti, aveva tradito.
E così una per una, entro i primi di marzo, le ragazze e le donne che avevano accolto e dato rifugio al delatore Nicolaj e ai suoi compagni si ritrovano insieme nel camerone dei Servi. Alcune si conoscevano già, altre no.
Ma in breve Serena e Lucia, Marianna Prandi e Nalfa Bonini – madre e figlia di Villa Seta –, Teresa Merzi di Novellara e Dorina Storchi, che arrivava dalla città, si dispenseranno l’un l’altra forza e compassione, solidarietà e allegria, costituendo fra loro una piccola, irriducibile falange salvavita. Sono qui in mia cella, con altre cinque e così ci siamo fatte buone amiche, e si và molto d’accordo, scrive Serena il trenta marzo.
E il sei aprile: potete scriverci quando volete. Le lettere che arrivano, arrivano per tutte.

Forse si muore oggi – senza morire.
Si spegne il fuoco al centro.
Sanguinano le bandiere. Generale è la resa.
Ciò che nasce ora crescerà in prigionia.
Reggete ancora porte invisibili dell’alleanza
bastioni di serenità. Puntellate il bene
che si sfalda in briciole di cartoni.
Il popolo è disperso. In seno a ognuno cresce
il debole recinto della paura – la bestia spaventosa.
A chi chiedere aiuto? È desolato deserto il panorama.
Si faccia avanti chi sa fare il pane.
Si faccia avanti chi sa crescere il grano.
Cominciamo da qui.

        Mariangela Gualtieri

Il registro che la giovane Pergetti adotta scrivendo a casa sembra consentire alla realtà per ciò che è, con molto equilibrio e altrettanto buon senso. Giudiziosa e provveduta, Serena non accenna a moti di ribellione. Come se la ventura che la costringeva dietro le sbarre dipendesse da un equivoco, poca cosa, per una stupidaggine simile, e tutte sei.
Ma intanto governa con sapienza il dire e il tacere, il protocollo pubblico e quello segreto.
Nei giorni immediatamente successivi all’arresto, è già in grado di far uscire di nascosto dal carcere un biglietto per cercare di stabilire con i suoi, grazie alla complicità di quello di Sesso delle guardie, un canale diretto di comunicazione.
Più avanti rivolgerà alla mamma questa esortazione pressante: dite a Marisa che la sua lettera lo ricevuta, ma che non mi scriva più, che le spiegherò poi al mio ritorno mi raccomando di non dimenticarvi.
Marisa compare altre tre volte nel carteggio di Serena, con la quale mantiene una corrispondenza che appare di un certo rilievo; si trattava forse della nipote quattordicenne figlia del fratello Guido, giovanissima ma già coinvolta nel movimento – con il nome di Karma – che la zia intendeva in questo modo preservare dai sospetti?
Del resto, le ragazze del camerone avevano trovato presto la maniera di comunicare con l’esterno in barba ai controlli: la bimba di Dorina, Simona Ganassi, – che aveva cinque anni e viveva con la nonna in via del Portone, a pochi passi dal carcere – aveva il permesso di entrare e uscire sotto gli occhi indulgenti delle guardie, che la accompagnavano a trovare la mamma. Nessuno sospettava che la piccolissima staffetta nascondesse biglietti nella fodera del cappellino e nell’orlo del cappotto.

Serena trascorrerà in carcere quasi cinque mesi, uno ai Servi – un pozzo oscuro e senza fondo nel quale i politici, neppure registrati all’ingresso, subivano ogni sorta di tortura, gli uomini, di sevizie e di pressioni psicologiche le donne – e gli altri in San Tomaso, le prigioni cittadine considerate un po’ meno dure e degradanti.
L’orrore dei Servi – lo stanzone delle ragazze era collocato di fronte alla cella degli interrogatori, il sangue che filtrava sotto la porta – risulta completamente taciuto nelle uniche due lettere partite da lì che si siano conservate, ma non appena il gruppo delle prigioniere viene trasferito e ottiene il permesso di scrivere, Serena traduce così, a uso dei suoi cari, il chiuso nel quale si trova costretta. Sono qui in una bella stanzetta, con due finestre, una molto alta, il lavandino, ed il gabinetto, ecc…
Dentro questo spazio privo di orizzonte – solo a metà maggio, reclusa da oltre due mesi, si lascerà sfuggire sebbene come ambiente sia abbastanza bello, e le comodità per pulizia non manchino, è l’uscio che più di tutto fa effetto, con quel buchino, largo due soldi, per vedere che un corridoio con altri usci uguali –, Serena si mantiene libera di tutta la libertà che si può.
Ben presente alle circostanze, pronta a sfruttare anche le minime opportunità che si offrono – la corrispondenza, le visite, i pacchi di cibo e di vestiario –, non si conforma tuttavia mai del tutto al bieco essere delle cose e dei fatti.
Del resto, Ala è il nome di battaglia che ha scelto per sé nei mesi cruciali della Resistenza.

[continua]

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